mercoledì 11 luglio 2007

Il Viaggio

Si parte. Il grande “mostro meccanico procede lentamente sulla pista buia. Speriamo bene! Ai due lati dell’aereo, ora è tutto illuminato ed il lunghissimo rettilineo è delineato orizzontalmente da luci rosse. Punto cruciale per il decollo. Stiamo correndo a piccoli sobbalzi. Ci alziamo. Ecco è fatta!
Prendiamo quota, le orecchie fanno male per l’altitudine. Ora si procede nel volo tranquillamente. Il dolore ai timpani è passato. Ci annunciano che stiamo volando a 3.000 metri di quota, ad una velocità di 9.000 km l’ora. Stiamo sorvolando una grande città ed il continuo alternarsi di luci blu, arancioni e rosse fanno pensare ad un grande circo, pronto per l’ultimo spettacolo, è sempre stupefacente vedere la terra dall’alto; ogni volta si rinnova la stessa meraviglia, lo stesso ingenuo stupore!
Un inconfondibile odore di carne suina fa la spia. Infatti la cena a bordo è a base di prosciutto cotto. Non è molto varia. Ci consoliamo con il thè, almeno ci riscalda lo stomaco. In certi momenti l’aereo sembra precipitare attraversando paurosi vuoti d’aria. Siamo sopra Varsavia. Sono le 2 di notte ed è bello stare al tepore, pensando che la temperatura fuori dall’aereo segna 60 gradi sotto zero. Ormai i passeggeri hanno perso l’euforia iniziale: “ C’e chi sonnecchia, chi legge il giornale, chi parla lo fa sottovoce per non rompere il clima distensivo creatosi. Arriviamo all’aeroporto alle 3 e mezza dopo la mezzanotte. L’interno è imponente, il soffitto e ricoperto di cerchi d’acciaio brunito, intervallati da tubi della stessa specie, per il cambiamento dell’aria. Sembra una stazione spaziale. Non ci stupiremmo se astronauti in tuta, galleggiassero nell’aria sopra di noi e sopra un tappeto di valigie, forse pacchi e carrelli lunghe file di persone accalcate, stravolte, immobili attendono il loro turno per la verifica dei passaporti. Comincia a farsi giorno. Le prime luci biancastre del cielo filtrano nell’aeroporto a spodestare l’illuminazione artificiale. Sono passate 3 ore dall’arrivo. Finalmente si giunge dinanzi allo sportello per il controllo dei passaporti. Un ragazzo biondiccio, guarda i documenti e scruta con sguardo gelido senza l’accenno di un sorriso, copre metà del suo viso da “ patata novella”. Si resta annichiliti a vedere un ragazzo cosi giovane, seppure incaricato di un lavoro di responsabilità che non sappia sorridere e se lo fa con le labbra appena tirate, ti mette un freddo dentro da sembrare di essere a tu per tu con un robot.
Alle 6 siamo nella hall dell’albergo. Anche qui tutto è enorme e dispersivo, freddo. Alla reception, ci annunciano che non esistono camere singole, cosi chi un mese prima ha prenotato e pagato la maggiorazione è costretto ad accomodarsi in camera doppia o tripla con emeriti sconosciuti. Ci viene da piangere. Le stanchezze, il dolore ai piedi per la snervante attesa all’aeroporto ci fanno accettare senza un minimo di dignità, di ribellione qualsiasi cosa ci propongono. Le camere dell’albergo di 1° categoria hanno lo stesso aspetto triste della hall. Ogni cosa è approssimativa. Le tende di cotone rosso scuro, pendono melanconicamente, staccate qua e la dai ganci la moquette dello stesso colore è bucata e scollata in vari punti, mentre il battiscopa e l’arredamento di legno sembrano corrosi dagli acidi, mostrando l’originaria “anima bianca” l’albergo è un grattacielo di cemento e vetro di colore grigio. Ha una capacità di 6.000 stanze, costruito da appena 5 anni ed è gia decrepito, mal tenuto, trascurato. La colazione è alle otto, pertanto non c’e tempo per riposare. Si pensa ad aprire le valigie per dare aria agli abiti che sono stati pressati per tante ore. Si fa una doccia per scacciare un poco la stanchezza e si parte alla ricerca del ristorante. Un labirinto di corridoi semicircolari tutti uguali, intervallati ogni dieci passi da porte con numerazione oltre il migliaio. Ce da perdere la testa e l’orientamento.
Finalmente si riesce a scendere alla reception. Chiedi gentilmente all’addetto dove si trovi il ristorante riservato al tuo gruppo. La signorina ti guarda come se chiedessi la luna. Non capisce o non vuol capire la tua lingua. Ti guardi intorno alla disperata ricerca di un tuo connazionale, smarrito e umiliato come te.

martedì 10 luglio 2007

Riflessioni della Nonna



Vegliardia
Un prendersi a braccetto, stringendosi l’un l’altro con affetto, con senso di proprietà, camminando
e soffermandosi Verso il tramonto della vita. Questo è, ed è stato Amore!

Immagine
Come si fa a riconoscere nell’uomo aflutito nel fisico, e aflutito moralmente, l’immagine di Dio, quali noi siamo!

Metamorfosi
Tutti siamo stati bianche agnellini , inevitabilmente poi, diventiamo belve pronte a sbranarci l’un l’altro!

Flash
Il sole illumina violento il piccolo cocuzzo della collina, dove un accrocco di cosette bianche con i tetti rossi s’affacciano sorridenti alla valle sottostante. Cosi graziose sembrano tante fidanzatine in attesa dei loro innamorati.

Rime di compleanno della Nonna (2)

Oh Aurora! Nome radioso
Sei il risveglio del riposo
Se al mattin la nube è assente
Splendi in ciel di rosa ardente
Dall’Alaska al polo sud
Tutti stan col naso in su
Se la rima mi sostiene
Voglio scriver tutto bene
E sincera come sempre
Deliniarti vo immantinente
Oi ricordi di donzella
Ti vedevan mite e snella
Or figura con più carne
Meno mite con più graffiante
Noi cosi pur ti accettiamo
E i tuoi umori sopportiamo
Ti vogliamo sempre bene
L’importante è stare insieme
Su Aurora non ti crucciare
Siamo qui per festeggiare
E per te persona accorta
Ti doniam “Naura Morta”

Rime di compleanno della Nonna (1)

Ciao Cecilia,
Se la persona mia non è presente
A te sono vicina cuore e mente.
Saluto tutta la bella compagnia,
che festeggiar sapran con allegria
l’ età “minore”, dell’ amica mia.
L’amica mia che forte voglio abbracciare
Con tanto affetto grande come il mare
ed il buon Dio che ogni cosa vede
la benedica e accresca la sua fede.
Signore belle che al tavolo sedete
dimentichiamo tutto pur le diete
gustate anche per me i manicaretti,
che di cecilia sono i più perfetti,
il di che vien però niente lamenti
se gli abiti saranno un po’aderenti
baci Cecilia auguri di “Buon Compleanno”
idealmente son con te per tutto l’Anno.
Saluto ancor l’allegra compagnia
Mi inchino bacio le mani e vado via.

martedì 15 maggio 2007

Il paese del Sorriso

C’era una volta, un paesino dalle casette tutte bianche con i tetti rossi e le aiuole piene di fiori.
I bambini giocavano felici nei giardini. Le nonne portavano i loro cagnolini a spasso. Le mamme cantavano contente nelle loro case, sbrigando le mille faccende giornaliere. Gli uccellini cinguettavano tutto il giorno e i piccolini nel nido con il loro cip, cip aspettavano ansiosi le mamme portatrici di bocconcini prelibati. I fiori nei giardini al primo spuntare del sole shiudevano le corolle ed ammiravano ogni giorno con rinnovato stupore il cielo.
Era veramente il paese del sorriso. Un giorno, un brutto giorno passò sopra quel paese una brutta nuvolaccia nera che vedendo tutta quell’allegria e quella pace idilliaca, provò un’invidia e una gelosia tremenda pervadere il suo nero cuore. Voglio vederli tristi e piangenti disse. Detto fatto, aprì le sue grandi ali e in un battibaleno il sole venne coperto e sul paesino scese il buio, più buio della notte. Ogni bambino ammutolì, gli uccellini si rifugiarono impauriti nei loro nidi, le nonnette con i loro cagnolini ritornarono con passi incerti nelle loro case, mentre tutti i fiorellini richiusero in fretta le corolle e piegarono tristi la testolina da un lato. Il mattino dopo i bambini appena desti, corsero alla finestra a scrutare il cielo, ma il sole non c’era. Rimasero tutto il giorno con i nasini appiccicati ai vetri a guardare la nuvolaccia nera che sembrava sogghignare contenta di tanta tristezza. Le nonnette accarezzavano dolcemente i cagnolini che guaivano disperati per la mancata passeggiatina. Gli uccellini non cinguettavano più e le loro mamme con quel buio pesto come la pece non potevano andare a trovare il cibo per i piccoli. I fiorellini, ormai senza speranza avevano reclinato il capino. Le mamme non cantavano più e guardavano con le lacrime agli occhi i visetti mesti dei loro bimbi. Molti giorni passarono in quel silenzioso grigiore. Ma un pomeriggio sorvolò il paese un bellissimo, Angelo dai lunghi capelli biondi, modellati. Gli occhi celesti, più celesti di un cielo sereno. Due grandissime ali bianche lo facevano fluttuare nell’aria come una Vela al vento. Intorno alla lunga tunica bianca, portava una spada d’argento con il fodero di Velluto Azzurro. Per questo era chiamato: “L’Angelo Azzurro”. Quest’Angelo, aveva avuto il compito dal buon Dio, di provvedere che sulla Terra tutto funzionasse bene e che tra gli uomini regnasse la pace. Quando l’ Angelo vide quel paese nel buio e nel silenzio più totale, cominciò a volare di qua e di là affannosamente per capire cosa mai era successo. Ad un tratto, sopra di lui, una risata cattiva sgangherata, gli fece alzare il capo. Solo allora si accorse della grande e brutta nuvola nera. “Togliti di qui, vai via, disse l’Angelo; Vai sopra le montagne dove non dai fastidio a nessuno. No, no, io voglio restare qui, mi piace stare qui e nessuno può mandarmi via, rispose la nuvola.L’Angelo Azzurro, volò dal “Buon Dio” e gli raccontò tutto. Alla fine chiese:”Cosa debbo fare Signore? Anche quella nuvolaccia fa parte del tuo Creato.Devi farla a fettuccine, rispose il Signore. Come? A fettuccine? Ripeté sbalordito l’Angelo. Ho detto a fettuccine. Hai la spada? Usala, comandò il signore.
L’Angelo Azzurro tornò sulla Terra e quando si trovò di fronte alla nuvola nera disse: “Per l’ultima volta ti ordino di andartene. Ah! Ah! Ah non me ne vado ridacchiò agguaiatamente la nuvola. L’Angelo allora, sguainò del fodero di Velluto Azzurro, la lunga spada d’argento e cominciò a menare fendenti. Il primo fendente, divise la nuvola a metà, poi la fece tutta a striscioline come coriandoli, anzi come fettuccine e tra quelle fettuccine entrarono i raggi del sole che in un attimo fecero sciogliere e svanire la cattiva nuvola. Il sole, con un largo sorriso, tornò a splendere sul paese.I bambini corsero di nuovo allegri a giocare nei giardini, le nonnette con i cagnolini ripresero le loro passeggiate, gli uccellini tornarono a cinguettare e i fiorellini rialzarono le testoline riaprendo le corolle al calore del sole. Il canto delle mamme risuonò ancora nelle case e tutto tornò come prima.Da allora niente turbò più la pace e la felicità del “Paese del Sorriso”.

martedì 8 maggio 2007

Come il bruco diventò lumaca

Cari bambini lo sapevate che la lumaca, prima di possedere quella graziosa casetta viaggiante, era un povero bruco con due antennine visive che gli servivano: per vedere i pericoli o scovare posticini per dei ghiotti pranzetti quotidiani, oppure per trovare un riparo ai rigori della notte?
Ebbene dicevo, che prima di avere l’abitazione addosso, questo bruchino era un vero tormentone, sia per la fauna, che per la flora dei boschi. Lo chiamavano:”Il bruco rompiscatole”. Avanzava , strisciando lentamente, cosicché, le tante piegoline che aveva intorno al corpo, si aprivano e si chiudevano come un organetto e la piccola testolina munita di antennine si muoveva a destra e a sinistra, come i tergicristalli delle macchine. Tutti gli animali e le piante dei boschi vedendolo arrivare dicevano: Eccolo, eccolo il rompiscatole senza casa! A chi chiederà ospitalità questa notte? Di solito il bruchino, bussava alla tana della talpa e questa che aveva il cuore buono non era capace di dirgli di no: poi il giorno che la talpa si sposò e mise su famiglia, non ci fu più posto per il povero bruco. Trovò per qualche notte, un rifugio nell’anfratto di un centenario albero scortecciato. Anche questo però era un rifugio provvisorio, perché molte sere, lo trovava occupato da formiche rosse, stizzose, oppure da mosche infreddolite e poco disposte a dividere il rifugio con lui. Cosi il povero bruco, ricominciava a girovagare alla disperata ricerca di una casa e molte sere, quando faceva buio si ritrovava solo, al freddo o sotto la pioggia.
Ogni anno, in un posto segreto agli uomini si teneva si tiene ancora, un raduno di tutti gli animali. Ogni specie di fauna è rappresentata dall’animale più vecchio,che espone i problemi del proprio gruppo. Il Capo Supremo è il leone, che, come saprete bambini, è da sempre il re della foresta, perché è il più forte e il più coraggioso di tutti gli animali. Si accovacciano tutti per terra, formando un grandissimo cerchio, al centro su di un tronco d’albero, siede il leone, che può con un volgere la testa, guardare tutti i suoi sudditi.Il giorno che interessa a noi, cominciò a parlare un vecchio cervo dal manto spelacchiato e grigio: aveva lo sguardo triste e stanco di chi ha visto molte, molte cose nella vita, belle e brutte. Quest’anno nella nostra famiglia, abbiamo avuto venti cervi morti ed appena quattro nascite. Dei venti cervi, solo cinque sono morti per cause naturali, gli altri, i più giovani, sono stati uccisi dai cacciatori. Il leone accigliato, si grattava pensieroso la lunga criniera rossa, poi disse: Tutti i cervi lascino immediatamente la “Montagna Nera” (così chiamata per delle rocce scure che sbucavano a migliaia dal terreno) e si rifugino al “Picco del Cielo” e nessun animale dovrà sostare e passare per la “Montagna Nera”. Ho detto! Urlò il leone, bettendo per terra un lungo bastone nodoso. Così sarà fatto! Risposero in coro i capi-gruppi, abbassando la testa in segno di rispetto. Vorrei esporre a “Sua, maestà” un caso veramente pietoso, disse la vocina di una grossa talpa. Era semisdraiata su di un fianco e la sua grossa pancia, si adagiava come un morbido cuscino sull’erba. Nella nostra zona c’è un bruchino che non ha casa e tutte le sere è alla disperata ricerca di un rifugio per passare la notte. Noi talpe e gli altri animali, qualche volta l’abbiamo ospitato, ma deve capire Maestà, sussurrò in tono di scusa la talpa, anche noi abbiamo le nostre famiglie e siamo gia in tanti!..Ci fu un lunghissimo silenzio, tutti guardavano speranzosi e fiduciosi il leone, che sembrava in difficoltà a trovare una qualsiasi soluzione. Infine quest’ultimo parlò:”Questo caso è alquanto complicato e non si può risolvere in quattro e quattr’otto. Ci rifletterò e quando avrò trovato una soluzione adeguata, convocherò tutti voi per una riunione straordinaria.
Si parlò di tante cose quella sera, poi all’imbrunire, il leone sciolse l’assemblea ed ognuno tornò alla propria casa. Per giorni e notti, nel folto della foresta, il leone pensava al bruchino a come poterlo aiutare. Camminava nervoso avanti e indietro, scuotendo il grosso testone, mentre la lunga coda folta accompagnava i suoi insoluti pensieri, spazzando come una scopa a destra e a sinistra tutto il terreno, coperto di fogliame.
Una sera più nervoso del solito si incamminò sopra pensiero, allontanandosi dalla foresta. Camminava, camminava si trovò davanti ad una distesa d’acqua. Questo è il mare pensò. Con passi felpati seguitò a camminare nel bagnasciuga. Le onde del mare lambivano la sabbia e le grosse zampe del leone e quando si ritraevano, restavano per un istante sulla rena bagnata le impronte leonine. Ad un tratto vide un oggetto affiorare dalla sabbia:”Era piccolo, rotondo fatto a spirale, aveva un bel colore bruno”. Lo raccolse e tastandolo con le zampe, si accorse che era molto resistente di materiale cartilaginoso. Lo esaminò attentamente e da una parte vide un buco che non aveva riscontro. Era come un vicolo cieco. Eureka! Ho trovato! Urlò per la gioia. Questa sarà la casa ideale per il bruchino. Ritorno nella foresta in un batter-baleno, sembrava avesse le ali. In quella notte molti animali udirono i ruggiti di felicità del Re della foresta e si domandarono il perché di tanta gioia. Il giorno dopo il leone, riunì in assemblea tutta la fauna. Quando tutti furono intorno a lui, mostrò orgoglioso l’oggetto trovato. Chiamò il bruchino, che intimorito per tanto onore, s’avvicinò e restò a dieci strisciate da lui. Vieni, vieni sulla mia zampa ordinò il leone con voce suadente. Entra in questo buco. Il bruchino cercò di infilarsi con la testa nella fessura di quella strana casa. No, no ammonì il leone, con il sedere devi entrare, altrimenti sarai ceco come una talpa! Dopo alcuni tentativi, il bruchino infilò la parte posteriore nel cunicolo, rimanendo fuori con la testa. Il leone ordinò! “Ora metti dentro anche la testa”. Il bruchino obbedì e si senti al riparo e al calduccio, proprio come stava nel ventre della mamma. Rimetti fuori la testa e striscia disse il leone. Strisciando con la metà del corpo anteriore, il bruco poteva vedere ogni cosa e meraviglia delle meraviglie la strana casa era sempre lì sopra di lui, viaggiava con lui. Ora disse il leone, non avrai più bisogno di nessuno. Questa sarà la tua casa e quando sarai stanco o pioverà o vedrai dei pericoli, non farai che ritrarre la testolina dentro al guscio e sarai al sicuro. Grazie tante bisbigliò commosso il bruchino con le lacrime agli occhi. Attraverso orgoglioso e dondolante, lo spazio che divideva “Sua Maestà” della fauna e tutti gli fecero ala, guardandolo curiosi con un pizzico di invidia. Ora cari bambini, quando vedrete una lumachina tra l’erba, magari tra le foglie d’insalata, non siate cattivi, non fatele male, se vi viene la tentazione di schiacciare quel guscio, ricordatevi del povero bruchino rompiscatole. Quel guscio è la sua casa.

venerdì 4 maggio 2007

Lo Scampolo

La vetrina è coloratissima di scampoli per i saldi di fine stagione. Vorrei quel tagli di stoffa a righe giallo e verde. Che ne dice sarà adatta per foderare la cuccetta della mia cagnolina? La signora si rivolge al commesso anziano che sta mettendo in mostra gli ultimi scampoli. Certamente signora, quello è di puro cotone, le farà una buona riuscita, oppure c’è l’altra stoffa a quadri rossi che è molto carina e sarebbe adatta a…. La voce dell’uomo è gentile e premurosa ma lo sguardo è spento e triste. Ho deciso. Prendo lo scampolo verde e giallo, dice la signora ed entra nel negozio, con la cagnolina al guinzaglio. L’anziano commesso la segue con passo pesante e strascicato. Qualcosa gocciola e lascia una scia appiccicosa sul pavimento. Anche la signora sente del bagnato sul piede. Accidenti! La confezione d’uova, poco prima acquistata deve essersi rotta e dall’interno della busta, l’albume miseramente impiastra il lucido del pavimento. Mi dispiace immensamente avervi combinato questo guaio, si scusa la signora costernata: Non si preoccupi signora, non è niente si rimedia subito! La voce giovanile e un tantino affettata del capo-commesso, cerca di togliere dall’imbarazzo la cliente, mentre come per magia una ragazza appare con strofinaccio e spazzolone e comincia a pulire la scena incriminata. Prima però mette la busta ancora sgocciolante fuori dal negozio. Nel frattempo l’anziano commesso ha confezionato il pacchetto con lo scampolo ed avviandosi alla cassa urla: “Quindicimila” per un attimo quella parola rimane sospesa nell’aria, poi come un sibilo sfreccia da uno scaffale all’altro, da un tessuto all’altro, come un canto di vittoria da tempo atteso. La signora paga e soddisfatta dell’acquisto sta per uscire, quando il capo-commesso imperiosamente apostrofa l’anziano; Sbrigati, aiuta la signora, prendi una busta pulita e mettici dentro quelle uova. L’uomo, cosi sollecitato cerca di muoversi più velocemente che può. E’ maldestro e si vede, non riesce a chinarsi, la cliente ha tanta pena per lui e pensa che ai suoi tempi è stato uno stimato e ricercato commesso, ed ora, causa la vecchiaia e la necessità è temuto con palese misericordia e per di più umiliato. Mi dispiace, lasci stare, faccio io, mormora con un filo di voce la signora e se ne va, con un nodo di tristezza nel cuore.

L'Ombra

Sono il cane che cerca un padrone
Sono il volto che cerca una carezza
Sono l’ombra che vive
Sono la speranza che cerca certezza

Sono l’amore che cerca l’amore
Sono il dolore che cerca l’oblìo
Sono l’ombra che vive
Sono l’anima persa che cerca il suo Io

Sono il sorriso che non ha bocca
Sono il pianto che nessuno ha asciugato
Sono il grido che nessuno ha ascoltato

Sono il cuore di spade trafitto
Sono il prossimo che alcuno addita
Sono l’ombra che vive
Sono la morte che cerca la Vita.

venerdì 20 aprile 2007

l'Indigestione

La colonia permanente (Di Donato) voluta da Mussolini per i bambini meno abbienti, era situata tra Formia e Gaeta. Era l’inizio della seconda guerra mondiale. A quel tempo tutto ciò che era commestibile veniva razionato: latte, pane, zucchero, ecc…Non era fame ma c’assomigliava molto. Ricordo la colazione nel grande refettorio. Sui lunghi tavoli erano approntate grandi scodellate piene di latte in polvere, molto annacquato. Il pane poi erano delle fette cosi sottili da essere trasparenti. Potevamo vedere benissimo attraverso di esse le campagne a noi di fronte. Un giorno, nella nostra tavolata decidemmo di fare una scommessa. Avrebbe vinto non chi finiva prima la colazione, bensì chi finiva per ultimo. Ci mettemmo allora con fare certosino a sbriciolare il pane nel tazzone per rendere il tutto una poltiglia finissima. Poi con la punta del cucchiaio si prendeva mollichella per mollichella , masticava lentamente e voluttuosamente. A parte la scommessa , incredibile ma vero, si aveva l’impressione di avere fatto una ricca colazione e mangiato a sazietà. Tutto terminava con l’arrivo della suora, che battendo le mani gridava: La colazione è finita. Fuori!
Ogni gruppo di ragazzine della stessa età, aveva una capo-squadra, che di solito era cattiva e antipatica. Nel mio gruppo ne avevamo una che si chiamava Corvo (di nome e di fatto) brutta come la nostra fame. Quando i parenti o i familiari ci mandavano i pacchi con delle cose da mangiare, lei era la prima a metterci le mani e a prendere ciò che voleva (Il meglio). Inutile fare le nostre rimostranze alle suore perché nei giorni seguenti ne pagavamo il fio con delle punizioni. Nei giorni di marcia, in fila per tre, come bravi soldatini lungo la strada che portava a Gaeta, si saliva su di una collinetta , dove c’erano dei bassi e striminziti alberelli, pieni di carrube. Le carrube sono come dei fagioloni lunghi e piatti, color cioccolato, dal sapore dolciastro. Noi le chiamavamo “Guainelle”. Siccome non si potevano portare le guainelle in colonia, ne facevamo delle grandi scorpacciate sul posto.
Durante le feste dell’anno, come Pasqua e Natale chi poteva, andava a casa per tre giorni. Ricordo un Natale molto particolare. Metà della colonia si sfollò. Io rimasi con l’altra metà. Non vi dico l’agitazione e la contentezza delle fortunate. Dimenticarono perfino la fame. Avevamo la pancia e lo stomaco bloccati. La sera prima della partenza, le suore pensarono bene di astenersi dal razionamento. Non volevano che andando a casa le festaiole, raccontassero ai familiari di non avere mangiato. Grosse fette di pane ricoperte da marmellata, vennero servite ai tavoli assieme al caffè-latte (Non annacquato).
Chi rimaneva si sentiva dire: Le vuoi le mie fette?
Si, si rispondevano. Io ne avevo fatto una colonna che come la Torre di Pisa pendeva, tanto più che mi fu difficile salire le scale e arrivare al dormitorio. Come Iddio Volle, con una mano sotto e l’altra sopra riuscii ad appoggiare la mangereccia, scorta sul comodino. Mi sdraiai a pancia all’ aria sul letto. Ero piena, intanto pensavo: Domani e dopo domani sarò servita a dovere, con tutto questo ben di Dio. Comincia ad agitarmi nel letto. Non riuscivo ad addormentarmi. Un forte dolore allo stomaco mi tormentava. Avevo freddo e la testa mi faceva male. Un sudore gelido mi scese per tutto il corpo. In ogni dormitorio dietro una tenda bianca, c’era il letto della sorvegliante notturna. Sto male, sto male piagnucolavo la sorvegliante non fece in tempo ad arrivare al mio letto, che io rimisi l’anima mia con tutto quel che segue: Pane, marmellata e latte. M’imbrattai tutta. Ero tutta appiccicosa e sporca. Benedetta figliola come ti sei ridotta, disse la sorvegliante. Mi spogliò e mi lavò tutta. L’unico tesoro che avevo, era una catenina d’oro, regalo di mia madre, avendola al collo la tolsero e non la rividi più. Sparì anche la torre di pane e marmellata. Rimasi più di un giorno a letto con lo stomaco in subbuglio e vuoto.
In un film Alberto Sordi dice: “A me m’ha rovinato la guera”.
E vero, quelle della mia generazione, otre i lutti, siamo stati derubati dell’adolescenza, della gioventù e ci siamo ritrovati grandi anzitempo.
Oggi posso anche sorridere dei miei ricordi ma vedendo le nuove generazioni, ignare di tutto e che tutto hanno, non sento invidia, ma un velo di tristezza copre il mio cuore per ciò che non ho avuto e per ciò che non abbiamo avuto.
E si a noi ci ha rovinato, la guera!

venerdì 13 aprile 2007

L'angelo e il diavolo

Un grande casermone bianco, lungo, rettangolare e basso, costruito negli anni Mussoliniani. La colonia permanente. Ospitava circa trecento bambini, maschi e femmine dai sei ai dodici anni. Era gestita dalle suore (le cappellane) per il grande cappello ad ali, rigido e bianco.

Le bambine erano divise dai maschi durante la giornata e la notte. Gli unici incontri si facevano lungo i corridoi delle rispettive aule, oppure nelle fatidiche marce per la strada principale che da Formia porta a Gaeta. Non ricordo quando feci amicizia con Paiella. Forse durante la ricreazione oppure al refettorio. Diventammo inseparabili, lei era biondina, delicata quanto io ero scura di capelli , ribelle e un poco prepotente. L’amicizia per me era totale mi dava alquanto fastidio quando lei parlava con le altre. Chi di più si meravigliò, furono le suore che ci seguivano più da vicino. Dicevano : Guardale. Il diavolo e l’angelo a braccetto. Mi faceva male. Però ero veramente felice di averla come amica. Nella parte sottostante della colonia c’era un piccolo terreno recintato, pieno di alberi di limoni, dove non era permesso entrare. Durante una ricreazione io e l’ angelo rompemmo quel divieto. Aveva piovuto molto quel giorno e il terreno era zuppo di pioggia. Ci incontrammo furtive non per prendere i limoni ma per scoprire chissà quali tesori. Con gli occhi fissi al terreno ed a mani vuote smuovevamo la terra. Niente di niente. Solo terra. Ad un tratto sotto le mie unghie qualcosa si mosse. Era un pezzo di pettine fitto che allora si usava per i pidocchi. Era veramente un tesoro per quei tempi tristi e avari, perché le poche cose che portavamo entrando in colonia, ci venivano letteralmente rubate. Senza nemmeno lavare quel reperto, cominciammo a passarcelo con forza tra i capelli alla “Paggio Fernando”. Rientrammo felici con il nostro piccolo tesoro.

Il giorno dopo la Paiella mi si avvicinò furtiva dicendomi: Guarda un po’ che ho nella testa. E li proprio al centro c’era un bel foruncolo rosso. Non è niente dissi, non ti grattare; Passerà. Passa un altro giorno e l’ infezione aumenta. Vai in farmacia dico alla mia amica. La suora lo disinfetterà. Questo accadeva di mattina, la sera la Paiella non era rientrata al dormitorio. Ero in apprensione non sapevo cosa pensare.

Invece il giorno dopo l’amica tutta sorridente mi fa: Come ho mangiato bene . Pasta asciutta, pane a volontà uova e frutta! Come e perché dico io. Tutto ciò solo per un foruncolo? Proprio cosi ; ha medicato il foruncolo , ha tagliato qualche capello intorno poi mi ha detto: E’ meglio che resti in farmacia per oggi, ti vedo molto sciupata. Sapevamo entrambe che la suora in farmacia aveva un debole per la mia amica e “L’ Angelo e il Diavolo” lo aveva ideato proprio lei. Miracolo! Dopo qualche giorno mi si arrossò tutto il centro della testa e tante piccole pellicine acquose facevano capolino. Paiella, Paiella guarda ho anch’ io l’ infezione, adesso vado dalla suora. Se a te ha dato un giorno per un foruncolo a me darà una settimana di infermeria. Evviva! E’ finito il razionamento, pancia mia fatti capanna! Corro dalla suora, lei guarda la mia testa e dice: Cosa avete combinato voi due? Comunque stai tranquilla non e niente. Cominciò a disinfettare. Brucia urlo io. Con le forbici fa un bel quadratino tagliando, i capelli. Poi con voce severa: Torna domani per la medicazione. Mi sentii morire. Oltre il dolore, pure il digiuno. Non dissi niente e me andai con la rabbia per l’ ingiustizia subita. Il peggio però doveva ancora venire. Medicazione il giorno dopo. Il terzo giorno l’ infermiera dice: Bisogna tagliare i capelli perché l’ infezione si allarga. No, no urlò, i capelli no. Allora lascerò la frangetta e le basette. Con le lacrime agi occhi che copiose scendevano sul grembiule feci si con la testa . Le cose non finirono, la suora infermiera si rivolse alla Madre Superiora perché intervenisse affinché mi decidessi a farmi rapare a zero perché oramai ero tutta una crosta. La Madre Superiora era un donnone alta e corpulenta che nemmeno le lunghe vesti riuscivano a snellire.

Aveva un viso pacioso e materno e se la Paiella era la cocca della suora infermiera io lo ero in egual misura per la Superiora. E’ vero che io ero l’attrice principale della sua recita Recitavo e Cantavo. Avevo una voce dai toni alterni, maschili e femminili. Mi chiamò nel suo studio e dandomi una carezza mi disse: Cara bisogna proprio che ti tagli a zero non guarirai altrimenti. I capelli ricresceranno , vedrai. No, Madre Superiora io non mi voglio rapare i capelli e bendarmi come Lazzaro, perché quando incontrerò i maschi si metteranno a cantare: “Zucca pelata dai cento capelli tutta la notte ci saltano i grilli e ci fanno una bella cantata, viva, viva la zucca pelata". Poi in classe le mie compagne si metteranno a ridere. No, disse seria la Madre Superiora. Sistemerò tutto io con i maschi, in quanto alle tue compagne di classe, verrò personalmente e parlerò con la suora-maestra. Cosi dicendo si alzò dalla sedia capiente e infilò le mani nelle profonde tasche della veste. E una, e due, e tre tirò fuori manciate di caramelle. Mi riempi le tasche del grembiulino. Queste sono tutte per te, cara. Il giorno dopo, assieme alla Superiora, come la chioccia e il pulcino entrammo nella mia classe, le compagne come videro la mia testa pelata come una palla, allargavano gli occhi e stavano per allargare la bocca, ma la stazza imponente della Superiora le fece desistere e serie si alzarono in piedi; “Buon giorno Madre Superiora” Salute, salute rispose lei. Si avvicinò alla cattedra della suora-maestra e con la mano mi sospinse verso di lei e aggiunse: Questa bambina la tenga vicino, sulla cattedra e punizione a voi bambine se ridete di lei. Se ne andò leggera come un angelo. Dalle tasche del mio grembiulino tirai fuori le caramelle le mostrai a tutte accompagnandole con un piccolo vezzo della bocca. Feci capire loro che io avevo le caramelle e loro no.

Fu la mia piccola rivincita.